Eleonora Duse, la Diva dell’Invisibile.


Ci sono attrici che recitano, altre che diventano il personaggio. E poi c’è Eleonora Duse, che annulla ogni confine. Mani sui fianchi, sguardo perso nel vuoto, voce come un soffio: nessuna finzione, solo vita. Sonia Bergamasco la cerca come si cerca un volto nei riflessi dell’acqua. A tratti emerge, poi sparisce di nuovo.


Duse è l’antidiva per eccellenza.

Mentre le sue contemporanee calcavano la scena con gesti enfatici, lei sottraeva. Duse non recitava, era lì e non c’era. Il suo corpo non si imponeva, si offriva. Il suo teatro era fatto di ascolto, intuizione, respiro. Un modo di essere che avrebbe influenzato il Teatro d’Arte di Mosca e persino Lee Strasberg, il padre dell’Actors Studio.

Elogiata da Čechov, musa dichiarata di Stanislavskij, a 27 anni Duse già divorzia per fondare e partire con la sua compagnia. Poi arrivarono Arrigo Boito, la storia perturbante con D’Annunzio, l’amore-odio con Gordon Craig, il padre della regia moderna. Gli uomini la desideravano, la celebravano, la rincorrevano. Nessuno la possedeva.

Le attrici di oggi osservano le sue fotografie, cercando il segreto nei gesti sospesi, nelle labbra appena dischiuse. Cos’era, dunque? Un fuoco? Una leggenda? Una fuggitiva? Eleonora Duse sembra sopravvivere in tutta la sua grandezza, fatta di carne e silenzi.

La musica del vuoto

Sonia Bergamasco segue il suo spettro, fruga nei resti, negli archivi, nelle lettere. Cerca una voce che non si è mai fatta catturare. Eleonora Duse non ha lasciato nulla, se non il mito, ancora vivo e vegeto, dove si proiettano le ombre di chi la succede.

Rodrigo D’Erasmo traduce quel vuoto in musica. Il suo violino non accompagna, ma evoca: un battito tribale, un blues sussurrato, il ritmo di una voce che sembra svanire. Una musica che esiste nello stesso spazio della Duse, in bilico tra la presenza e la sparizione.

Duse, The Great by Sonia Bergamasco - all rights reserved


Tra archivi e segreti

Il documentario non è un’agiografia, ma una ricerca certosina. Lettere, foto, quaderni: ogni traccia di Eleonora si fa indizio, ogni parola tenta di restituirne il fascino introverso. Le immagini scorrono come pagine di un diario riemerso: lettere, ritratti, frammenti di spettacoli perduti e ricostruiti, voci fuori campo che tentano all’unisono di collettarne l’aura, tra il clandestino e il pericoloso. 

“Le donne tornavano a casa e cambiavano vita.” 

Questa è l’eredità che lascia alle donne e agli uomini della sua epoca. La sua forza dirompente sul palcoscenico si rifletteva nella sua indipendenza di vita, rendendola un’icona ante litteram dell’emancipazione femminile.



Spirito senza tempo

La regista intreccia passato e presente, portando sullo schermo una rete di attrici e intellettuali che cercano di ricostruire il senso del suo lascito. Attraverso materiali d’archivio e interviste a figure come Ellen Burstyn, Helen Mirren e Valeria Bruni Tedeschi, il film si interroga su cosa significhi oggi essere un’attrice. Qual è lo spazio del teatro nell’immaginario contemporaneo? Quale eredità ha lasciato Duse nel modo di concepire la scena e il corpo?

C’è un’urgenza reale, una forza al femminile plurale che passa dallo schermo fino allo spettatore, come un filo segreto che attraversa le epoche, tramandandone l’energia vitale.

“Io ho scoperto che l’ascoltatore vero diventa una statua

La frase scritta da Eleonora riverbera come un presagio. Intanto, l’Ottocento volgeva al termine, il romanticismo cedeva il passo all’epoca della velocità e del cinema, che poco avrebbero avuto a che fare col suo teatro del misticismo.

Cenere all rights reserved

Il grande rifiuto

Duse sfuggiva alla cinepresa come si sfugge a un destino imposto. Il suo unico film, Cenere (1916), è la testimonianza di un’ultima resistenza. Non guarda mai la macchina da presa, come se sapesse che il dispositivo avrebbe fissato il suo mistero in un’immagine definitiva. Mentre il teatro le permetteva di dissolversi ogni sera in un’altra storia. Un ultimo atto di sottrazione, di pudore artistico, che conferma la sua natura elusiva. 



Il film finisce, ma l’enigma resta.

La quarta parete si frantuma: Sonia Bergamasco ci osserva, il suo sorriso di sfinge diventa un varco tra realtà e mito. Alla fine, resta solo una domanda: dov’è Eleonora Duse? Forse nelle mani di un’attrice che stringe una sua foto ingiallita. Forse nel respiro di una sala d’essai che si svuota. Forse da nessuna parte, perché le attrici scompaiono quando cala il sipario. O forse è ovunque. Nel ricordo che vive. Nell’ombra proiettata sulla scena. Duse non è mai appartenuta a nessuno, ma continua a vivere nelle pieghe del tempo.

Sonia ci ha condotti fino alla soglia.

Eleonora è ancora lì. Invisibile, ma presente.

Tra il sempre…e il mai.

Scritto da Giuseppina Mendola

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