Nosferatu (2025): L’oscurità congelata di Robert Eggers

Scritto da Giuseppina Mendola

Il Nosferatu di Robert Eggers si presenta come un remake ambizioso, ma fallace, che tenta di traslare l’orrore esistenziale di Murnau nell’era dello streaming. Eggers, allontanandosi dai toni intimi e viscerali di The Lighthouse e The Witch, sembra sacrificare la narrazione sull’altare dell’estetica. Ma ciò che guadagna in bellezza visiva, lo perde in anima.

La scelta di catapultare lo spettatore in medias res, senza introduzione narrativa, richiama il linguaggio seriale: un artificio che rompe l’illusione di realtà, cardine dell’esperienza cinematografica. Questo approccio, lontano dalla sacralità della sala, disorienta lo spettatore e lo relega a un’osservazione distaccata di personaggi e trama.


Appetiti  cosmici

Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) è il dinamo della storia, descritta come una “creatura altamente conduttiva per forze cosmiche.” La sua attrazione-repulsione verso il Conte Orlok (Bill Skarsgård) va oltre lo schema classico di vittima e predatore. Ellen diventa un magnete che attrae l’oscurità per trasformarla.

Lily-Rose Depp infonde al personaggio una grazia magnetica, ma manca di quella carica perturbante che resta impressa a lungo nella memoria.  La fanciulla brilla come un simbolo, ma il suo bagliore resta confinato a un’eterea distanza.

Di fronte a lei, il Conte Orlok (Bill Skarsgård), pura manifestazione di fame, si auto-definisce con una sintesi brutale:

“Io sono un appetito, niente di più.”

Tuttavia, la sceneggiatura non riesce a tradurre questa tensione in profondità emotiva. Se il Nosferatu di Werner Herzog (1979) trovava l’umano nell’inumano, Eggers finisce col perdersi nella sua confezione impeccabile

L’estetica contro l’anima

Eggers costruisce ogni fotogramma come un dipinto: nebbie, luci soffuse, composizioni languide che ricordano più i pittori preraffaelliti che la tagliente linea dell’espressionismo tedesco, con ombre lunghe e atmosfere gotiche. Questa ossessione per la perfezione visiva congela la narrazione, privandola di verità. 

Inoltre, in Murnau, l’oscurità era un’entità viva, a tutto tondo, e agiva proprio come un personaggio, mentre qui è ridotta ad esercizio stilistico, un gioco di luci e ombre privato della sua carica energica.

Lo spettatore si ritrova così in un labirinto di simbolismi privi di mappa, senza una vera chiave interpretativa. Anche la musica, per quanto raffinata, rischia di soffocare la scena, caricandosi di un ruolo troppo dominante per supplire i vuoti emotivi della trama.

 “Se vogliamo domare l’oscurità dobbiamo prima accettare che esista.”

William Defoe  spicca come contraltare di Nosferatu, medico e alchimista alla ricerca della pietra filosofale. Ma la sceneggiatura non accetta davvero l’oscurità: la illustra, la analizza, ma non la vive. L’opera manca dell’empatia necessaria a far dialogare il suo mondo con quello del pubblico.

Un mito che non si rigenera

La conclusione arriva altrettanto frettolosa. La promessa di una riflessione cosmica sull’umanità e sull’orrore si dissolve in una chiusura semplicistica, lasciando un retrogusto amaro di incompiutezza. Nonostante l’impeccabile confezione visiva e le interpretazioni solide, i personaggi rimangono archetipi privati di vita. Alla fine, il film non emoziona, non spaventa, non inquieta: ci lascia impietosi, come spettatori sospesi in un mondo gelido e perfetto, davanti a un sole vuoto

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