Oltre il binario | Nan Goldin e le polaroid queer che hanno riscritto la grammatica dell’intimità e del binarismo
Boston, 1972. Una ragazza ventenne entra per la prima volta in un drag club chiamato The Other Side. Ha con sé una Polaroid. Non sa ancora che sta per documentare una rivoluzione.
I suoi scatti avrebbero perforato decenni di narrazione mainstream e restituito dignità, glamour e scena a chi era abituato a restare ai margini dell’inquadratura.
In un’epoca - gli anni '70 - in cui il genere era un teorema da non discutere e l’America sbandierando falsamente libertà, sotto la superficie, stringeva la sua morsa binaria sui confini tra maschile e femminile, Nan Goldin cominciava a smantellarli frame dopo frame, premendo incessantemente il pulsante di scatto sui corpi che eccedevano, che trasgredivano, che esistevano al di là delle categorie imposte. I suoi primi lavori, datati dal 1972 al 1974, ritraevano i membri più intimi della comunità transgender di Boston, quella "famiglia scelta" che le avrebbe insegnato cosa significa abitare la propria pelle senza compromessi.
«Le persone in queste foto non stanno soffrendo di disforia di genere, ma piuttosto esprimendo euforia di genere», scriveva Goldin nell'introduzione a The Other Side, il suo libro seminale del 1993.
Le Polaroid di Goldin catturavano momenti di intimità estrema: drag queen che si truccavano davanti allo specchio, corpi nudi nelle prime luci dell'alba, sguardi di sfida e vulnerabilità che trapassavano l'obiettivo. Nan Goldin non documentava la realtà: la viveva assieme ai suoi stessi soggetti. Entrava nelle stanze in punta di piedi, complice tra i complici, mai estranea. I personaggi delle sue fotografie sono semplicemente irresistibili — sono accattivanti, femminili, vulnerabili, eppure estremamente potenti — tutto ciò che una drag queen è di per sé. La sua fascinazione per quei piccoli mondi privati, protetti dalla luce di appartamenti fatiscenti, il suo sguardo ancora vivo che immortala l’ardore della disubbidienza e ne fa baluardo politico. Tutto concorre a ribadire che non v’è alcun voyeurismo scandalistico, ma compartecipazione totale al dissenso.
The Ballad of Sexual Dependency: cronaca di una generazione
Composta da quasi 700 ritratti simili a istantanee sequenziati su una colonna sonora musicale evocativa, The Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin è una narrativa profondamente personale, formata dalle esperienze dell'artista tra Boston, New York, Berlino e altrove tra la fine degli anni '70 e gli anni '80.
La serie mostra le vite turbolente e le relazioni drammatiche di Goldin e dei suoi amici nel mondo underground degli anni '80. Ci trovi tutto: l’amore tossico, la tenerezza, l’eros brutale, la dipendenza, la morte, la festa. Nessuna morale. Solo l’accumulo ipnotico del vivere, mostrato attraverso gli occhi di diverse coppie, sia gay che etero.
Era l'epoca pre-AIDS, quando la sessualità queer viveva una stagione di libertà assoluta prima che la pandemia decimasse la comunità. Le immagini di Goldin diventarono testimonianza involontaria e diario visivo di uno dei periodi più duri per il mondo LGBTQ+. La sua camera, confessionale e archivio, strumento di memoria e arma di resistenza.
A vederle da vicino, nelle sue foto Nan non inseguiva la sofferenza. Cercava la libertà. La sua famiglia scelta — drag queen, persone trans, amanti, coinquiline, amici e compagni — diventa, in quegli scatti, una costellazione affettiva dove non c’è spettacolo, ma verità.
Il libro, mentre rappresenta un tributo emotivo a coloro che Goldin ha perso nell'epidemia nel corso degli anni, riflette precisamente tutta la bellezza ed il dolore del mondo drag che l'autrice ha vissuto, cronaca di corpi che celebravano se stessi, nonostante tutto e tutti, alla ricerca della trasgressione che tiene in vita.
«Il mio desiderio era mostrarli come un terzo genere, come un’altra opzione sessuale, un’opzione di genere. E mostrarli con molto rispetto e amore, per glorificarli in qualche modo perché ammiro davvero le persone che possono ricrearsi e manifestare pubblicamente le loro fantasie. Penso che sia coraggioso»
Oggi, nel 2025, mentre ci prepariamo a riempire le strade di Milano per il Pride, le Polaroid di Nan Goldin ci riguardano più che mai per la sua pratica di militanza. Da sempre attivista di ogni marginalità, Goldin ha infatti recentemente messo in vendita alcune sue stampe per finanziare i diritti delle persone trans. Un gesto semplice, diretto, necessario, che ci responsabilizza.
Perché ogni volto ritratto porta con sé una verità: la libertà non è mai data. È sempre presa. Scattata. Difesa.
E allora, mentre Milano marcia, balla, resiste, ricordiamoci che tutto questo — ogni corpo che si muove in libertà, ogni identità che si afferma senza scuse, ogni gesto d’amore che sfida le convenzioni — è anche l’eredità di una giovane donna che, cinquant’anni fa, entrando in un club queer con una Polaroid in tasca, decise che non avrebbe mai più abbassato lo sguardo.
Scritto da Giuseppina Mendola | Founder di Sintesi Aurea
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