Offline™: il nuovo lusso? Perché oggi si paga per spegnere il telefono


Ora si paga per spegnere il telefono. E il capitalismo trasforma anche il silenzio e l’incontro in un prodotto.


Se sei a Milano e hai voglia di parlare con qualcuno senza uno schermo di mezzo, c’è una buona notizia: puoi farlo. La cattiva? Devi pagare il biglietto.


Negli ultimi anni, varie città hanno visto l’ascesa di una nuova tendenza: eventi di “screen detox” organizzati per favorire l’interazione tra sconosciuti mettendo a tacere il telefono. Milano, come molte altre metropoli globalizzate, non manca all’appello. La promessa è semplice: un evento, una stanza, persone sconosciute, zero schermi. Il sottotesto? Paghi per ricordarti come si interagisce con gli altri. 


L’idea di base potrebbe sembrare nobile: riunire individui desiderosi di disconnettersi dal digitale, trovare un ritmo diverso e riabituarsi a interazioni più umane. Il problema? Questo dovrebbe essere la norma, non un’esperienza esclusiva che trasforma anche la socialità in un servizio premium.


I “club offline” sono infatti l’ennesima iterazione di un capitalismo che si insinua laddove le crepe si fanno più evidenti. In questo caso, la crepa è l’isolamento sociale. A prima vista, queste iniziative sembrano rispondere a un’esigenza reale: il bisogno di socialità autentica in una società iperconnessa. Tuttavia, emerge una questione critica: la mercificazione del tempo libero come risposta a un malessere sistemico.

L’individualismo neoliberista ha generato una condizione in cui persino la socialità viene disaggregata e rimodellata in un servizio. Il rischio è che, senza una riflessione profonda sul valore del tempo e della relazione umana, ci si trovi a normalizzare la monetizzazione dell’esperienza sociale, perdendo di vista il principio di autodeterminazione nelle interazioni quotidiane. È necessario domandarsi: cosa significa per una società arrivare a pagare per un’esperienza che un tempo era spontanea e gratuita?



Il fenomeno della para-socialità nei social network – ovvero la costruzione di rapporti apparentemente autentici in contesti mediati o artificiosi – mette in luce la fragilità del tessuto comunitario contemporaneo.



In un sistema che enfatizza continuamente l’importanza dell'individuo autonomo, paradossalmente, la capacità di socializzare senza un framework preconfezionato si è erosa. Siamo diventati spettatori di vite altrui, con lo sguardo incollato agli schermi mentre la realtà sfuma sempre di più nella simulazione?

In questa distorsione, se l’arte dell’incontro si riduce a un rituale guidato, se la spontaneità diventa un’eccezione che necessita di un format preconfezionato, allora il problema non è solo il nostro isolamento, ma la nostra incapacità di riconoscerlo.

Siamo arrivati a questo: pagare per poter stare in una stanza senza telefono e magari conoscere qualcuno. Non perché sia necessario un evento per farlo, ma perché siamo stati talmente disabituati alla libertà di interazione che non riusciamo più a viverla senza un contesto brandizzato che ci “autorizzi” senza farci sentire fuori posto. 


Non è solo una questione economica. È una questione di principio


Pagare per un evento che offre esperienze è lecito. Normalizzare l’idea che ogni aspetto della nostra vita, persino sedersi in un bar per leggere un libro, debba essere regolato, confezionato, venduto, è meschino. Domani ci serviranno istruzioni per un incontro casuale? Fino a che punto siamo disposti a delegare la nostra umanità a meccanismi di mediazione esterni? E soprattutto, cos’altro ci venderanno?

La vera sfida non è riempire il vuoto con format di intrattenimento sociale, ma ripensare le dinamiche della socialità in un’ottica non per forza commerciale e più orientata al recupero della convivialità come valore intrinseco della vita pubblica, di cui sia noi sia la politica dobbiamo farci carico.

Testi e Art Direction di Giuseppina Mendola

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