“The Mountain” di Agrupación Señor Serrano per LIFE / Zona K | Siamo tutti alpinisti della post-verità


Una luce verde  irradia con un’atmosfera sinistra una partita di badminton già in atto mentre prendiamo posto. Il led spettrale trasforma i giocatori in sagome inquietanti: un dettaglio che destabilizza prima ancora di capirne il senso. Un drone sorvola poi la sala, scrutandoci dal suo occhio meccanico. La partita è già iniziata e, forse, noi ne siamo i protagonisti inconsapevoli.

The Mountain di Agrupación Señor Serrano arriva al Teatro Out Off per LIFE, il festival di teatro documentario ideato da ZONA K. Ma qui non si racconta una storia: si smonta il modo in cui le narrazioni prendono forma nella nostra testa, ribaltando i rapporti di forza in sala e trasformando la piéce in un dispositivo ottico che interroga i meccanismi della percezione contemporanea. Non siamo più solo testimoni dell'evento scenico: diventiamo pazienti sul tavolo operatorio della verità.


/ Cartografare la menzogna

C'è un'immagine ampiamente diffusa che ripercorre la storia delle idee: scalare una montagna, superare tutte le difficoltà per raggiungerne la cima e, una volta lì, poter vedere il mondo "così com'è". Gli artisti catalani prendono questa metafora usurata e la sezionano con precisione anatomica. È chirurgia applicata alla scena contemporanea, dove ogni presunta vetta della conoscenza nasconde ulteriori nebbie interpretative.

Foto di Jordi Soler

La storia di George Herbert Leigh Mallory - l'alpinista britannico la cui sorte sull'Everest rimane un enigma - viene intrecciata con Orson Welles che seminò il panico col suo programma radiofonico La guerra dei mondi. Due narrazioni apparentemente distanti che condividono lo stesso DNA problematico: l'impossibilità di stabilire cosa sia realmente accaduto. Welles dimostrò quanto facilmente la radio potesse manipolare la realtà; Mallory incarnò l'ambizione umana di raggiungere una verità geografica che rimase per sempre sospesa.

La drammaturgia di Serrano, Palacios e Dordal non racconta in realtà questi fatti: li usa come strumenti di indagine. Ogni elemento scenico - dai modellini in scala di Lola Belles alle proiezioni video di Jordi Soler Quintana - funziona come una lente d'ingrandimento puntata sui nostri meccanismi cognitivi. Non c’è più una verdad da difendere, ma uno stato febbrile da osservare. Il teatro diventa clinica, specchio, contagio.


/ Il microscopio e la montagna

Foto di Jordi Soler

Sul palco del Teatro Out Off, i quattro performer (Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios, David Muñiz) si muovono con la freddezza di chi sa di essere parte di un esperimento più ampio. La loro presenza fisica è misurata, mai spettacolare.  Come chirurghi che operano a cuore aperto la nostra fiducia nelle narrazioni dominanti, maneggiano telecamere, manipolano oggetti, orchestrano proiezioni.

La vera protagonista è la macchina scenica stessa: video mapping, live streaming, modellismo e sound design si fondono in un unico flusso percettivo, iperlogico e amplificatore. Nico Roig costruisce paesaggi sonori che non accompagnano l'azione ma la generano, creando quella sensazione di vertigine che caratterizza la nostra epoca dell'informazione liquida e dell’incertezza strutturale.

Il pubblico diventa cavia (in)volontaria di questo esperimento sulla percezione. Quando il drone inizia a registrare la platea, proiettando i volti degli spettatori in tempo reale, si attiva un cortocircuito riflessivo: da una parte continuiamo a seguire la narrazione su Mallory e l'Everest, dall'altra ci osserviamo mentre la stiamo seguendo.

È un gioco di specchi infiniti che riflette perfettamente l'ossessione contemporanea per l'autorappresentazione (selfie, social media, videosorveglianza) e la perdita di confini chiari tra chi guarda e chi è guardato. Il drone funziona come metafora della società della sorveglianza, ma anche come strumento per far riflettere il pubblico sui retroscena delle proprie interpretazioni, fino all’allegoria della caverna di Platone.


/ L'ingranaggio del dubbio

Il lavoro non costruisce una tesi da dimostrare. Piuttosto, architetta una serie di dubbi sistematici che si annidano nella percezione dello spettatore. Ogni sequenza apre interrogativi senza chiuderli, ogni immagine ne contraddice un'altra, ogni racconto ne smentisce uno precedente. Il risultato è un teatro che coinvolge in un processo di revisione critica dei propri automatismi conoscitivi.

Foto di Jordi Soler

“Volevamo far capire alla gente che non doveva prendere per buona ogni opinione predigerita, e non doveva bersi tutto quello che usciva dal rubinetto, che fosse la radio o Facebook

Orson Welles sulla sua radiotrasmissione:

La Guerra dei Mondi (1938)


/ La chirurgia dello sguardo

Agrupación Señor Serrano ha sviluppato negli anni un linguaggio scenico che mischia reale e virtuale, analogico e digitale. In The Mountain, questa poetica raggiunge una maturità nuova. Gli strumenti tecnologici diventano veri e propri organi di senso, estensioni delle potenzialità del teatro: miniature, scenografie artigianali, proiezioni tridimensionali, live video convergono in un meta-set performativo che predispone lo spettatore a guardare dove e come. È meta-teatro nel senso che consegna gli strumenti: poi sta a noi scegliere il punto di vista.

La forza del lavoro sta nella sua capacità di rendere visibile l'invisibile: quei meccanismi di costruzione del consenso che normalmente operano nell'ombra. Attraverso l'analogia alpinistica, la drammaturgia materializza concetti astratti come la post-verità, la manipolazione mediatica, l'incertezza epistemologica.

Il pubblico esce dal Teatro Out Off con la sensazione di aver partecipato a una "chirurgia dello sguardo", irriverente e rigorosa allo stesso tempo. The Mountain non ci porta in vetta: ci consegna la mappa, il barometro e una nebbia da attraversare. Non per trovare risposte, ma per imparare a distinguere, nel bianco, le diverse qualità del vero.


Scritto da Giuseppina Mendola  | Founder di Sintesi Aurea

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