La Zona di Interesse di Jonathan Glazer: un capolavoro tra cinema e arte concettuale

La luce.

La luce è il mezzo di circoncisione registico attraverso cui Glazer sceglie di intagliare, illuminare, non farci vedere.

La luce che avvolge dalla finestra la giovane ragazza a cui viene meno il canto e la parola, il suo silenzio vivo. Il pianoforte è tutto ciò che resta di sublime. L’aura si consacra di splendore in mezzo alla decadenza che non suona.

Si permea d’una grazia nebulosa, l’aria: nel salotto Dio fa il suo debutto, col suo silenzio di marmo, benedice quel giovane corpo - rigido, contratto, violato, eppure vivo. S’espande l’opera al bianco, in slow motion. Il dialogo è per chi sente ancora il suono originario.

Più che un film siamo di fronte a un’opera d’arte concettuale: l’affresco neorealista della banalità del male, l’utilizzo della post produzione come dispositivo di sperimentazione meta-estetico.

Lo spettatore resta sconvolto: pensava di vedere una ricostruzione storica e invece si ritrova nell’abisso d’un teatro da camera, dove la battaglia si svolge all’interno, in un microcosmo casalingo, infestato di piante rampicanti nel disperato tentativo di aggrapparsi all’oblio, all’assenza, alle piccole conquiste sociali del quotidiano.

Un grido di silenzio oltre il muro: il grande rosso, il fumo, l’inquinamento.

Il metaverso è un effetto negativo.

Come quello d’un mirino che imbianca le sagome che sta per sparare: le vittime sono mosche bianche in movimento, catrame nero come sottofondo. Le mele marce, cadute, contate, divengono l’archivio testamentario di chi nel buio trova rifugio dalla morte. Avrà otto anni la piccola senza nome, che insella fuggitiva la sua pedalata di sopravvivenza.

Un punto bianco sancisce il limite che tutti connette: la glottide si chiude, il respiro si fa affannato, la malattia incombe lungo la scalata verso il niente. Come Moire, arrivano le aspirapolveri moderne col loro rumore bianco oracolare: si sgretola come cenere ogni obiettivo di produzione, di fronte alla fine. La memoria è uno stillicidio e il suo ronzio è ancora intatto. Quando rettificheremo il suo rubinetto? Quando arriverà il punto di non ritorno?

La Natura bucolica che fa da sfondo è un orgasmo e un organismo.

I fiori ovunque simboleggiano la memoria di chi non ebbe seppellitura, nel giardino terminale di chi scelse e si convinse che non poteva fare altro che coltivare il proprio orto.

Il potere è una rosa di spine.

Sul finale, il suo rosso cala il sipario. L’epilogo non esiste, non c’è e ciò ci lascia interdetti e interrotti. La vita è uno squarcio. Forse perché la guerra è ancora in corso ed il finale è un varco aperto.

Testo e Grafica di Giuseppina Mendola

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