Il primo branded content della storia? L’Eneide.
Concept creativo realizzato da Sintesi Aurea | Creative Studio © 2025 - copertina non ufficiale
Da Fondazione Merz, l’epica maratona di sei ore di Paolo Musio per il Festival delle Colline Torinesi.
Chiunque abbia studiato marketing, comunicazione o pubblicità dovrebbe saperlo: l'Eneide rappresenta il primo caso di racconto brandizzato della storia. Considerata la valenza con cui “i miti di fondazione” stanno tornando in auge nei complessi scenari contemporanei, quasi più prossimi alla metafinzione che alla documentazione del reale, ci è parso proprio il caso di recarci a Torino da Fondazione Merz per vedere come si mette in scena l'epica oggi, così lontana, eppure così vicina.
INDICE
-
Il viaggio dell’eroe e l’invenzione dell’Occidente
Ulisse ed Enea: conoscenza o obbedienza?
-
Didone e il femminile abbandonato
La Sibilla e l'Archetipo della Guida Iniziatica
-
Cosa ci insegna ancora Virgilio
MITOLOGIA DEL PRIMO BRAND: L’IMPERO
Quando Virgilio compone l’Eneide, attorno al 29 a.C., la Roma di Augusto non cerca più solo vittorie militari. Cerca un racconto. Un mito che la giustifichi, che le dia una genealogia e un destino. Augusto comprende che il potere non basta a fondare una civiltà: serve una narrazione. È in questo momento che nasce quello che oggi chiameremmo branded content: un racconto pensato per incarnare, diffondere e consolidare l’identità di un brand — in questo caso, l’Impero romano stesso.
L’Eneide, storytelling politico ante litteram, fa di un migrante troiano il progenitore dei Romani, unendo Oriente e Occidente, sconfitta e rinascita, guerra e fondazione.
Ogni libro del poema è una tappa del viaggio che, simbolicamente, ogni civiltà deve compiere per legittimarsi: fuggire dalle rovine, attraversare il mare, sostare nell’ambiguità dell’amore, discendere agli inferi, fondare una nuova patria.
Paolo Musio porta l’Eneide alla Fondazione Merz per il Festival delle Colline Torinesi, entrando in questo campo magnetico. E lo fa in un luogo che, ospitando l’opera di Virgilio, è insieme cava e santuario: lo spazio sotterraneo di Merz, bianco, scarno, cubico, che ospita una riflessione contemporanea sul mito come dispositivo.
✷ Il viaggio dell’eroe e l’invenzione dell’Occidente
Il paradigma fondativo dell'Occidente non nasce da una genesi lineare, bensì da un peregrinare che è, al contempo, un paradosso. Quella che a un primo, superficiale sguardo potrebbe apparire come una mera fuga, si rivela, nell'ordito virgiliano, come l'ineludibile premessa della fondazione. Ma ogni fondazione esige un dazio, un sacrificio che si sostanzia nella perdita: la dipartita dalla terra natia, il doloroso abbandono di Didone — un amore tradito in nome di un destino più grande, o forse, in nome della ragion di stato ante litteram.
Caduta-dellImpero-Romano-dOccidente-Cole_Thomas
Enea, questo prototipo dell'eroe moderno, non si limita a navigare il mare nostrum: reca sulle spalle il peso venerando del padre, simbolo del passato che non si rinnega, e nella mano la promessa fragile e ineludibile del futuro, i figli. Il suo nostos (che nostos non è, poiché non vi è ritorno all'origine) lo conduce persino a forare il velo che separa i vivi dai morti, a sondare gli inferi per carpire ciò che è negato alla vista dei mortali.
È in questa complessa, stratificata architettura che Virgilio costruisce così un modello narrativo così potente, così pervasivo — il viaggio dell’eroe — che diventerà l’ossatura di tutta la cultura occidentale, dal cristianesimo alla serialità contemporanea.
✷ Ulisse ed Enea: conoscenza o obbedienza?
Ulisse e Diomede rubano il Palladio, Gaspare Landi, 1783 (I premio), Olio su tela, cm 97 x 146, Parma, Accademia di Belle Arti
Se Ulisse è mosso dall'«inquietudine epistemologica» del conoscere, spinto dalla curiositas a navigare oltre le colonne d'Ercole per la pura esperienza del mondo, al contrario, Enea è l'uomo dell'«obbedienza metafisica». La sua traiettoria esistenziale non è guidata dal desiderio (il desiderio inteso come mancanza che spinge alla ricerca), ma dalla stringente necessità della missio, del dovere come imperativo etico e storico.
L'Eneide, in quest'ottica, rappresenta il poema che istituisce l'archetipo del dovere come fondamento dell'Occidente romano. Enea è l'eroe che sacrifica l'individuo al telos collettivo: l'amore per Didone (la passione che disgrega l'ordine), la libertà della scelta, persino il dubbio esistenziale, vengono immolati sull'altare della necessità storica: la fondazione di Roma. Egli diviene, così, la figura perfetta per un impero che, in una sorta di «auto-legittimazione ideologica», giustifica la propria ineluttabile esistenza come un destino preordinato e fatale.
Tuttavia in controluce, Virgilio lascia intravedere la frattura e il dramma dell'uomo. La sua pietas — la devozione non solo verso gli dèi, ma verso la famiglia e la patria, in un senso lato di responsabilità esistenziale — si tinge delle tonalità del dolore.
Ecco che il pathos irrompe nel logos dell’azione! La missione è perennemente segnata da perdite che lo lacerano, lasciando un segno indelebile sulla psiche dell'eroe: la moglie Creusa, l'amata Didone, e in ultima analisi, la perdita della sua stessa identità troiana, che si dissolve per assumerne una nuova, romana. L'impero sorge dalle ceneri non solo di Troia, ma anche del cuore di Enea, un monumento eretto sul dolore della perdita.
LA GUERRA INVISIBILE E IL RUMORE BIANCO
Paolo Musio intercetta questa ambiguità e, con visione minimale, la traduce in una partitura acustica che tenta il recupero della tradizione orale. C’è un piccolo ulivo, familiare, intimo, ai piedi delle prime file di pubblico. La sua ombra si riflette e si estende sulla parete bianca. È l’unico oggetto di scena. Un segno vegetale in un mondo di pietra e luce. L’ulivo è il simbolo della pace, ma anche della durata, della resistenza. Come a dire che la civiltà, per quanto fondata sulla guerra, continua a cercare un terreno dove attecchire.
Intorno, il suono. Campanellini, fruscii, scratch radiofonici, sciabordi liquidi: un tessuto acustico che sostituisce la scenografia. È come se lo spettacolo fosse un podcast dal vivo, un’esperienza di ascolto immersivo che spinge lo spettatore a chiudere gli occhi per liberare l'immaginazione. La voce di Musio è il medium.
Fondazione Merz, Paolo Pellion
Lo spazio della Fondazione Merz, bianco e cavernoso, si presta a una dimensione rituale. Due fari color sangue tagliano di rosso la scena, come due vene aperte. L’aria si fa densa, dubbiosa. In un momento, le conchiglie “cicaleggiano” in sala — un suono reale, quasi naturale, che fa pensare alle onde del mare e ai corpi che il mare porta via. Il pubblico ascolta più che guarda. È costretto a costruire le immagini dentro di sé, come accadeva all’aedo antico, e non è facile per lo spettatore moderno, così abituato a stimoli che ne imboccano la fantasia di continuo.
Invece del clangore delle armi, c’è un ticchettio legnoso che “bussa sulle chiome del pubblico”. È come se la guerra si fosse ridotta a rumore di fondo.
Un suono bianco, continuo, ineliminabile. L’attore non alza quasi mai la voce. È un Enea interiore, un reduce. L’Eneide diventa così una cronaca del post-bellico, una meditazione sul dopo. “E cosa non forzi il cuore degli uomini, maledetta fame dell’oro!” — la frase rimbalza, scheggia il silenzio. Quel verso, isolato nella sala, suona come un titolo di giornale in un feed di notizie. Siamo ancora dentro la fame dell’oro. Ancora nella logica della conquista. Ancora nel racconto che giustifica ogni guerra con l’idea di una fondazione.
L’effetto è quello di una trance controllata. Lo spettatore è sfidato a entrare in uno spazio aurale dove il mito si riattiva come memoria collettiva del linguaggio. La tecnologia è ridotta all’essenziale. Microfono, luci, qualche filtro: ogni libro brucia il precedente ed è l’attore stesso a rimarcare il passaggio dipingendo di suo pugno la scena. Tutto è costruito per amplificare il peso specifico della parola.
Doron Studio
✷ Didone e la Tragedia dell’Abbandono
Tra tutti i momenti della maratona poetica — della durata di ben sei ore contigue — due sono quelli che più di altri seducono la mia attenzione: l'amore e la perdita di Didone che precedono, nel dispiegarsi del poema (Libri IV e VI), la discesa agli Inferi.
La regina di Cartagine è l’alterità che lo trattiene, la possibilità di un’altra vita. Ma Enea, in quanto pius Aeneas — prigioniero, o meglio, esecutore di un mandato che trascende la sua volontà individuale — non può che scegliere la missione.
Enea è allontanato da Didone - Aeneas wird von Dido wegberufen | Meldolla, Andrea
Quando riparte, Didone si uccide. Il mito della fondazione si macchia di sangue femminile. “E sulle vette le ninfee ulularono. Didone nozze le chiama. Nasconde con questo nome le colpe.” L’amore, nell'economia del poema, è sempre una «colpa archetipica»: un ostacolo alla funzione, una deviazione dal progetto dal progetto patriarcale.
Risuona qui l’eco di un’ontologia del potere: la fondazione della città si paga con la morte di una donna. È così da sempre. Da Didone, che si uccide perché l’eroe possa fondare Roma, a Ifigenia, immolata perché la guerra di Troia abbia inizio, fino ad Antigone, che muore per opporsi alla legge della polis, e alle tante eroine senza nome — sacrificate sull’altare del potere maschile. La guerra è la dimensione del logos maschile, la perdita e il lutto quella del pathos femminile.
Enea deve partire e, per farlo, deve dimenticare. È la prima, grande «rimozione dell'Occidente», la negazione del desiderio in favore del dovere.
✷ La Sibilla e l’Archetipo della Guida Iniziatica
L'approdo di Enea a Cuma, nel sesto libro, rappresenta il vero «punto di non ritorno» ontologico. Qui, la Sibilla Cumana, sacerdotessa di Apollo, si erge quale custode di un sapere arcano, maestra di misteri che dischiude le vie dell'aldilà. È lei la «guida iniziatica» che sussurra il segreto del ramo d'oro, il lasciapassare fisico e simbolico, l'unica chiave per accedere al regno dei morti.
La discesa agli inferi è un episodio cardine di tantissime mitologie: per poter costruire il futuro (in questo caso, la gens Iulia, Roma), è imperativo discendere nel passato, nei recessi della memoria ancestrale.
Credits: 2. Minka Schumese, 3. Leon Baker
Nell'esecuzione performativa di Musio, l'antro della Sibilla si materializza nell'ambiente fisico, il “bianco cavernoso” della sala, dove la voce si fa eco e forza di disvelamento. “E come una Furia si mise per l’aperta voragine mentre egli ne eguagliava l’andatura”: la Sibilla che si lancia nell'abisso con furore profetico.
Enea, l'eroe della pietas e del controllo, finalmente si lascia prorompere per necessità di iniziazione, per aderire al ritmo del sacro, alla «logica dell'altrove», imparando a muoversi nel regno dell'indicibile e dell'invisibile, prima di risalire e compiere il proprio destino storico.
L'inferno virgiliano si discosta radicalmente dalla topografia morale di quello dantesco che abbiamo impresso nella nostra memoria collettiva: ovvero l'oltretomba come luogo della «punizione escatologica». Se in Dante la Commedia è un viaggio verticale attraverso i gironi della colpa e dell'espiazione, dove ogni dannato è fissato nel suo peccato per l'eternità, in Virgilio la discesa è un’immersione orizzontale, sede di «conoscenza iniziatica» dove Enea incontra i grandi del passato e le ombre dei futuri eroi.
È qui che Virgilio costruisce la sua più complessa e terribile apologia del potere: una visione circolare della storia come un «ciclo ineluttabile di violenze».
Anchise, il padre-guida, si trasforma in ierofante: non predice la pace, ma le guerre a venire, le fatiche che giustificheranno l'Impero. In questa prospettiva, il poema non si limita a narrare, ma promuove e giustifica la legittimità del potere romano, fondandolo sull'accettazione mistica e dolorosa di una violenza intrinseca alla sua stessa esistenza. La narrazione epica diviene così lo strumento principe per «vendere» l'ideologia imperiale come un destino ineluttabile, marchiando a fuoco nella coscienza collettiva la necessità di Roma.
Aeneas and the Sibyl in the Underworld, 1630's, Jan Brueghel the Younger. The Metropolitan Museum of Art. Oil on copper 26.7 x 35.9 cm.
POEMA DELL’ORIGINE, POEMA DEL PRESENTE: COSA CI INSEGNA ANCORA VIRGILIO
Intercetto, a margine di una pausa caffè, la suggestione di un astante: “una preghiera laica”, in riferimento alla rilettura contemporanea offerta da Paolo Musio. È forse in questa definizione che si annida la lezione ultima che l'Eneide ci consegna: riusciamo ancora a chiudere gli occhi per immaginare il futuro o siamo condannati alla tirannia dell'immagine presente?
Ogni epoca, nella sua crisi identitaria, avverte l'ineludibile bisogno di ritornare al proprio momento fondativo. Nei tempi che viviamo — segnati da migrazioni di massa, conflitti bellici, affamamenti e ricostruzioni identitarie inclini al fanatismo — Enea riemerge come figura-archetipo dei tempi presenti: l'apolide, il rifugiato, l'uomo che si fa carico del passato sulle spalle e cerca, contro ogni evidenza, un luogo dove poter ricominciare l'impresa umana.
Serifa
Ed è proprio questo cortocircuito tra parola fondativa e linguaggio del potere che Paolo Musio riaccende nella sua mise en scène, scegliendo l’ascolto come imperativo del mito.
L'attualità del poema è attraversata dall’attore-regista con una intenzionalità precisa: mirare a sottrarre all'immagine la sua prepotenza tirannica per restituire alla parola la sua sacralità originaria. In un'epoca «visiva», dominata dall'istantaneità videoludica e dall'indifferenza che ne deriva, mettere in scena l'Eneide permette di investigare come riattivare un senso atrofizzato dalla bulimia dei display. Non è un'impresa dalla riuscita scontata, ma ne ammiriamo l'audacia.
In questa prospettiva, Musio utilizza l’Eneide come membrana attraverso cui decodificare i concetti fondativi dell'Occidente. Interrogandone i pilastri del potere — Roma, l'Impero, la nozione stessa di Civiltà Occidentale — ci si chiede: cosa significa fondare nell'epoca della post-verità? Cosa resta di una civiltà quando il suo linguaggio si è ormai consumato e svuotato di senso?
Come ci insegna la lezione strutturalista, il compito del mito è tutto nella vocazione di connettere le fratture che la storia lineare e la cronaca separano.
Così l'esperienza-maratona proposta da Musio alla Fondazione Merz, uscendo dai moderni canoni teatrali, ci allena a discernere i topoi retorici con cui ancora oggi il potere racconta se stesso: il rumore bianco del consenso, la retorica asettica della pace, il fruscio pervasivo della propaganda mediatica.
Il suo Enea è un montaggio fonetico che attraversa i secoli, a tratti simile a un'onda radio disturbata, a tratti ridotto a respiro primordiale, grazie agli interventi sonici di Francesca Fabrizi. In questo gesto, il linguaggio stesso può essere una forma di «migrazione», un attraversamento continuo di confini per imparare a distinguere, nel rumore bianco del potere, il suono fragile ma inalterabile dell’origine.
Eneide di Virgilio / traduzione Rosa Calzecchi Onesti / adattamento e interpretazione Paolo Musio / spazio sonoro e composizione Francesca Fabrizi / produzione TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi
Riproduzione riservata © | Scritto da Giuseppina Mendola | Founder di Sintesi Aurea
Le immagini presenti in questo blog sono coperte da copyright e rimangono di proprietà dei rispettivi autori. La pubblicazione delle immagini non comporta alcun trasferimento di diritti. In caso di contestazioni, vi invitiamo a contattarci per procedere alla rimozione immediata del contenuto interessato. L’utilizzo delle immagini non autorizzato non intende violare i diritti d’autore, conformemente alla Legge 22 aprile 1941, n. 633 e alla Convenzione di Berna.