This Will Not End Well. O forse sì. | Nan Goldin all’Hangar Bicocca
Nan Goldin C performing as Madonna, Bangkok, 1992 © Nan Goldin Courtesy Gagosian
‘Snapshot Verité’: l’universo sensuale e adamantino di Nan Goldin in sei installazioni audiovisive al Pirelli Hangar Bicocca di Milano.”
La prima retrospettiva incentrata sull’opera filmica di Nan Goldin, a cura di Fredrik Liew, sbarca al Pirelli HangarBicocca di Milano con la curatela di Roberta Tenconi e Lucia Aspes. L’esposizione presenterà il più ampio corpus di slideshow mai esposto finora. In apertura, la potenza sonora dei Soundwalk Collective – Stephan Crasneanscki e Simone Merli – prepara il terreno a Sisters, Saints and Sibyls, nella sua forma originaria.
INDICE
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Comprendere l’essere attraverso l’immagine.
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La fotografia come terapia, attivismo ed estasi
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O forse, sì.
Il click e l’abisso
Chi sono? Dove sono? Quale tempo abito? È a partire da questi interrogativi esistenziali che Nan Goldin muove i primi passi del proprio percorso artistico, tra fotografia, biografia e storia culturale. L’intenzione è una sola e men che meno che “estetica”: comprendere il proprio essere attraverso l’immagine, utilizzando l’autobiografia come uno specchio.
Ma in quale contesto si inserisce? Negli anni Settanta, mentre la fotografia occidentale abbandona ogni realismo oggettivo e si trasforma in linguaggio personale, Goldin sviluppa un percorso basato sull’immediatezza e sulla prossimità, vivendo l’obiettivo come un prolungamento epidermico, in cui il diario e l’archivio coincidono.
La dissoluzione del fotogiornalismo, il passaggio dalla modernità all’epoca postmediale, la crisi delle gerarchie artistiche e l’affermazione di un pensiero femminista che riformula il ruolo dell’autrice: sono questi i fattori che spalancano nuovi spazi di rappresentazione per Nan.
Le prime fotografie, scattate in modo autodidatta, sono esperimenti di autoaffermazione, nati in seno a un’urgenza di guarigione e tutela da un ambiente familiare rigato dal silenzio e dalla perdita.
La morte di Barbara, sorella suicida — il primo buco nero — la spinge verso la camera oscura. Da lì non uscirà più.
/// «Pensavo che non avrei perso nessuno se lo avessi fotografato».
Autorealizzazione
Nan Goldin è letteralmente un “essere gettato nel mondo” che si manifesta attraverso la registrazione dell’esperienza.
La fotografia, per lei, è insieme strumento di autorealizzazione e dispositivo di sopravvivenza, nel solco d’una tradizione esistenzialista che riconosce nell’atto creativo un tentativo di esorcizzare la fine, consapevolezza che distingue l’uomo da ogni altra creatura. Croce e delizia di questa consapevolezza è la spinta a creare, in un gesto goffo e gagliardo di autoconservazione.
Nel caso di Nan Goldin, l’esistenza tutta è mediata dal mezzo fotografico. Si potrebbe dire che l'artista che realizza la propria esistenza attraverso la fotografia si impegna anche in una forma di autoterapia.
Nei suoi diari visivi, forgia un linguaggio unico che documenta il personale e rende pubblica l’intimità. Consapevole della propria precarietà, rende la tenerezza, l’erotismo, la vulnerabilità, l'apertura alle ferite il suo soggetto, il suo ethos.
Talvolta si ritrae al centro della scena, talvolta si immerge nel rapporto con chi fotografa, svelando vulnerabilità residuali con totale sincerità, mentre l’immagine fissata prolunga la coscienza di sé. Il suo sguardo si esercita sulla quotidianità, sugli spazi minimi, sugli incontri. La macchina fotografa la vita mentre accade, rovesciando di continuo aspettative e gerarchie.
La biografia dell’autrice coincide infatti con la struttura della sua opera, in un’assenza di separazione tra arte e vita. L’infanzia segnata dal trauma, l’ingresso nella scena underground di New York, la dipendenza, le amicizie perdute: abitando il margine, lo documenta da testimone interna, in un’osservazione partecipante che si dispiega sul campo.
The Ballad of Sexual Dependency rappresenta il punto di sintesi di questa metodologia: restituendo dignità a chi esiste ai bordi – queer, sex worker, tossicodipendenti, amori infranti, l’archivio goldiniano diventa un atto di comunità, uno strumento di disarmo dello sguardo dominante e un organismo politico che restituisce visibilità ai soggetti esclusi. «Non eravamo marginali, eravamo parte del mondo», dice.
Nel suo autoritratto dopo l’aggressione del 1984, la superficie fotografica diventa campo di prova della verità. L’immagine, mostrando il volto della donna tumefatto, interrompe la dinamica del voyeurismo e costringe lo spettatore a confrontarsi con la materia del reale, mentre la fotografia registra ciò che il discorso pubblico tende a rimuovere: la dipendenza, la sessualità non normata, la violenza domestica, la malattia.
L’irrequieta sensibilità di Nan Goldin non può che tradursi progressivamente in impegno civile, trovando nel documentario All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras (2022) – vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – la sua più compiuta rappresentazione. Dopo aver vissuto in prima persona la dipendenza da oppioidi, l’artista fonda P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), movimento con cui denuncia nei musei il ruolo della famiglia Sackler nell’epidemia di oppiacei, attraverso interventi performativi e azioni di protesta. Il film testimonia con straordinaria lucidità come la sua pratica artistica nasca da un processo di guarigione e trasformazione, più che da una mera esposizione del dolore.
This Will Not End Well
L’importanza di Nan Goldin risiede dunque nella capacità di connettere la sfera privata con quella pubblica, la ferita individuale con la storia collettiva.Traducendo il dolore in struttura comprensibile, la sua fotografia diventa un campo relazionale in cui “tutta la bellezza e la tortura” trova forma condivisa.
La mostra This Will Not End Well, presentata al Pirelli Hangar Bicocca, costituisce la prima retrospettiva che esplora l’opera di Nan Goldin dal punto di vista del suo linguaggio filmico. Il progetto, articolato in sei installazioni audiovisive, analizza la struttura dello slideshow come dispositivo narrativo e percettivo.
Le proiezioni non seguono un ordine lineare. L’assenza di inizio e fine produce una percezione ciclica. Le immagini scorrono come pensieri, si richiamano per analogia, si sovrappongono. Lo spettatore è immerso in un flusso che simula il funzionamento della coscienza. Ogni sequenza agisce indipendente e simultanea.
Nan Goldin Young Love, 2024 © Nan Goldin Courtesy Gagosian
/// «Si rivela come una donna amata dal suo mondo, e senza paura di vivere la sua vita il più pienamente possibile. Condivide la sua vita con noi, condivide il suo bisogno di liberazione e le sue aspettative del sublime».
Scrive David A. Ross nella sua introduzione al catalogo del Whitney Museum of American del 1996 in “Sarò il tuo specchio”.
La funzione dello slideshow è duplice: da un lato conserva la dimensione diaristica della fotografia, dall’altro la espande nel campo del cinema, ponendola al confine tra vita e sogno.
La mostra rende evidente come la fotografa operi come montatrice della memoria: la ripetizione delle immagini, il ritorno di volti e ambienti, la sovrapposizione tra passato e presente generano un campo di percezione continua.
In tale contesto, l’istanza di Goldin come filmmaker si erge come volontà di dare alla fotografia un tempo e una voce. La sequenza sostituisce l’immagine singola, il ritmo sostituisce la posa. L’opera non è più oggetto ma processo in atto, a cui il pubblico si ricongiunge tramite attraversamento.
La mostra dell’Hangar Bicocca consente di leggere l’intera produzione goldiniana come un continuum visivo. La fotografia, il film, la proiezione e l’installazione appartengono a un’unica fenomenologia: quella dell’esistenza registrata.
In questo senso, l’opera di Nan Goldin continua a produrre conoscenza: una conoscenza che non separa la vita dall’arte, ma le riconosce come manifestazioni della stessa materia.
Il progetto, seguendo questa vocazione, è concepito come un vero e proprio villaggio. Progettato da Hala Wardé, amica e architetta di lunga data, ogni padiglione dialoga con un’opera specifica.
Tra i lavori più iconici:
The Ballad of Sexual Dependency (1981–2022), The Other Side (1992–2021), Sisters, Saints, Sibyls (2004–2022) ospitata nel monumentale Cubo, Fire Leap (2010–2022), Memory Lost (2019–2021) e Sirens (2019–2020). Fino ai due lavori più recenti, You Never Did Anything Wrong (2024) – meditazione sul ciclo vitale ispirata a un antico mito solare – e Stendhal Syndrome (2024), costruito su sei racconti delle Metamorfosi di Ovidio, coi volti amici dell’artista come soggetti.
/// «Ho sempre desiderato essere una filmmaker. I miei slideshow sono film composti da fotogrammi»




Courtesy Gagosian | © Nan Goldin
Cupid with his wings on fire, Le Louvre, 2010; Young Love, 2024; Gravestone in pet cemetery, Lisbon, 1998; Still from You Never Did Anything Wrong, 2024; Brian and Nan in Kimono, 1983; French Chris on the convertible, New York City, 1979; Heart-shaped bruise, New York City, 1980; C as Madonna in the dressing room, Bangkok, 1992; C performing as Madonna, Bangkok, 1992; Fashion show at Second Tip, Toon, C, So and Yogo, Bangkok, 1992; Gina at Bruce’s dinner party, NYC, 1991; Joey at the Love Ball, NYC, 1991; Joey laughing, Hotel Ritz, 2001; Picnic on the Esplanade, Boston, 1973; Sunny in my room, Paris, 2009; My mother pregnant, n.d.; Self-portrait with eyes turned inward, Boston, 1989; My horse Roma, Valley of the Queens, Luxor, Egypt, 2003; Untitled, 1982
Riproduzione riservata © | Scritto da Giuseppina Mendola | Founder di Sintesi Aurea
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