Il patriarcato è una casa infestata di spettri e va in scena al Piccolo Teatro di Milano
Analisi femminista de L’Angelo del Focolare della regista Emma Dante
INDICE
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Cosa impedisce l’evoluzione verso una vera partnership
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Il mito della madre come sistema chiuso
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Dentro la gabbia domestica secondo Emma Dante
Passività, il seme del male
Molti uomini non sanno essere partner perché portano dentro di sé un'impronta antica: quella del bambino che attende di essere servito, nutrito, sostenuto, senza dover dare nulla in cambio. Questa impronta si cristallizza in uno schema che attraversa tutta la vita adulta, impedendo l'evoluzione verso una vera partnership.
Questa sproporzione la vediamo già a partire dal linguaggio, dove la cooperazione maschile viene definita “aiuto”, come se stesse compiendo un favore straordinario in un territorio — la casa — che gli è dovuto, di diritto. È come se nella nostra memoria culturale, ci fosse un soggetto titolare della responsabilità (la donna) e un soggetto ausiliario che interviene in via eccezionale (l'uomo).
In questa delega totale del carico familiare, si prepara il terreno psicologico affinché germogli la logica discendente di dominio. L'indifferenza emotiva diventa un'abitudine, la rinuncia alla corresponsabilità si fa normalità e un giorno quella normalità si trasforma in pretesa, quella pretesa in controllo, quel controllo in violenza.
Indagare questa radice, questo passaggio dal sintomo alla causa, significa comprendere come un gesto isolato cessi di essere episodio e diventi parte integrante delle strutture che lo rendono pensabile e che lo perpetuano.
Uccidi l'angelo del focolare!
L'archetipo della madre come figura assoluta esercita ancora una forza simbolica pervasiva nel nostro immaginario. Diventare madri e improvvisamente fare da parte tutto il resto – i desideri, i pensieri, i progetti, i sogni – ritirarsi in un angolo buio dell'anima per lasciare spazio a questa nuova identità che inghiotte la donna completamente, esaurendo ogni altro orizzonte di senso.
Chi ha stabilito che una madre debba essere questo: solo madre, nient'altro che madre?
Le storie si ripetono di generazione in generazione, soprattutto nelle famiglie italiane, con la stessa fedeltà con cui si tramandano ricette. La maternità viene vissuta come compito totale: bisogna accudire, sostenere, supplire, in virtù dell'abdicazione sistematica dei propri desideri, come se non possano esistere nuovi sistemi di cooperazione.
Tramandato per secoli e presentato come naturale destino biologico, questo modello sacrificale, è in realtà il risultato di un condizionamento profondo che spegne la luce individuale per far brillare quella degli altri. La violenza, che noi realizziamo solo quando culmina nell’aggressione, esiste invero già da molto prima: nella sottrazione progressiva degli spazi di libertà individuale, nell'erosione silenziosa del sé.
Il carico emotivo che le donne affrontano quotidianamente – anticipare bisogni, gestire le emozioni proprie e degli altri, creare armonia nell’ambiente, mediare i conflitti – resta ancora invisibile: un lavoro né nominato, né riconosciuto, né retribuito, che consuma energie vitali senza che vi sia alcun circolo di restituzione.
Quando un uomo non riconosce infatti l'impatto della propria indifferenza, quella mancata consapevolezza si sedimenta nel suo modo di abitare il mondo. La trasformazione richiede che l'uomo risvegli la propria capacità di realizzare la cecità della propria assenza, portando a coscienza ciò che fino ad ora ha lasciato nell'ombra.
«Mi ha sempre colpito questo modo di raccontare la donna che si prende cura della casa e della famiglia: l’angelo del focolare… Lo trovo sarcastico, perché ci vedo l’esatto contrario: la donna che, nella propria vita, si occupa solo della casa e dei figli finisce per diventare un demonio, per essere tutto tranne che angelica».
― Emma Dante
Una prigione senza sbarre chiamata famiglia
Perché chi subisce violenza non tronca immediatamente con la ghigliottina del dolore? Quando l'essere umano resta in un rapporto che lo ferisce, spesso non lo fa per mancanza di volontà, ma per la profondità di una catena interiore che lo lega al noto. Il desiderio di uscire dal sistema coesiste con l'impossibilità di immaginare un altrove praticabile, come se la sofferenza fosse la conferma della propria appartenenza.
Spezzare il ciclo richiede un atto di immaginazione profonda: la capacità di vedere un'altra versione di sé, di intuire una vita diversa, di credere che l'uscita sia possibile. Non tutti hanno ancora sviluppato questa visione interiore. E questo vale per le vittime, per i carnefici, per chi osserva senza intervenire: tutti abitano la stessa struttura psichica, la paura del cambiamento, avvolti nella stessa corrente di dolore.
Questa impotenza trasuda magistralmente sulla scena del Piccolo Teatro Grassi di Milano, dove va in scena fino al 30 novembre L’Angelo del Focolare per la regia di Emma Dante, regista palermitana tra le più note e acclamate.
La banalità di una prigione grottesca, chiamata casa, si arrende al corpus degli attori: burattini febbrili e vivissimi, succubi gustosi delle proprie irruzioni interiori. Parlano in pugliese, in siciliano, in un dialetto intriso di mito che pare evocare il presagio. Sono scorie di un’eredità che striscia nel silenzio, un refolo di destino.
La scena è spoglia, nuda e coreografata da tocchi di luce e pochi tessuti pregiati: un centrino, una scatola, una lampada che si anima, delle lenzuola.
In questa prigione senza sbarre chiamata famiglia, le azioni si ripetono in attrito continuo — ritmi squisiti e favolistici alternano picchi di riso amaro all’osceno. La nonna, matrona obliqua, confabula invettive dal sapore arcano, janara di Sicilia che mastica le colpe come caramelle e le rimette in circolo.
Le paure si scompaginano in un groviglio di voci, tra spiragli di brio e buio, mentre gli spettri del patriarcato prendono sembianze in un mostro a quattro teste: la nonna, la mamma, il marito, il figlio.
Tutto si sfalda in un organismo unico, piroettando sulle ali del delirio. La danza della realtà diventa uno zotico che timbra il proprio bacino, in un fluire di morsi e di denti, rimorsi e ripetizioni.
È il femminile cancellato, “ammutàto”, avvizzito, invocato e messo a processo.
Un paio di ballerine segrete, la causa scatenante la mimesi del tragico. Le istanze erotiche dei glitters sprigionano il friccicore d’un godimento mancato: canto, danza, coercizione del peccato, eterno ritorno del delitto. La Luce, regista silenziosa della danza macabra, si fa quinto elemento col suo incedere strobo: forse è la voce di cui la donna è privata, a suggerire e suggellare la compresenza lieve di un auspicio.
L’opera di Emma Dante approda naturalmente a questo esito: il gesto culminante dell’omicidio, privato della centralità drammatica, lascia emergere gli atti apparentemente insignificanti che lo preparano e lo rendono possibile. Il sangue che permane sul volto della protagonista funziona come significante resistente alla rimozione, traccia visibile che impedisce alla violenza di scomparire nell’invisibilità del quotidiano.
Il pubblico assiste inerme a uno spettacolo in cui riso e inquietudine coesistono pirandellianamente, come nel migliore teatro tragico. Ma nella danza finale, che tanto ci ha ricordato la sfrontatezza giocosa di Loïe Fuller, serpeggia una rinascita imminente. Grottesca è l’indifferenza; è tempo di recidere il cordone ombelicale del patriarcato.
L’angelo del focolare
Testo, regia, scene e costumi: Emma Dante
Luci: Cristian Zucaro
Con David Leone, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi
Foto di scena per il Piccolo Teatro Grassi di Milano: Masiar Pasquali
Coordinamento e distribuzione: Aldo Miguel Grompone, Roma
Organizzazione: Daniela Gusmano
Coproduzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Châteauvallon-Liberté, scène nationale, Les Célestins, Théâtre de Lyon, La Comédie de Clermont-Ferrand, Scène Nationale d’ALBI-Tarn, Le Cratère, Scène nationale Alès, L’Estive, scène nationale de Foix et de l’Ariège, Théâtre + Cinéma Scène nationale Grand Narbonne, Théâtre de l’Archipel, scène nationale de Perpignan, Théâtre Molière, Sète scène nationale archipel de Thau, Le Parvis, scène nationale Tarbes-Pyrénées, Compagnia Sud Costa Occidentale, Carnezzeria
Riproduzione riservata © | Scritto da Giuseppina Mendola | Founder di Sintesi Aurea
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